martedì 29 dicembre 2009

memoria


Un impiego a vita non è mica male. Veramente. Tutti son pronti ad ammettere che ad una posizione sicura nel mondo si collegano cento piccole bellezze, piacevolezze e comodità, come ad esempio la gradevole riposante qualità di membro del circolo di cultura letteraria. Chi ha una sistemazione si può permettere delle simpatiche serate in birreria. Il reddito fisso va la sera al concerto o al teatro. Il buon stipendio partecipa con entusiasmo e sicuro di sé ai balli in maschera. Eppure vi sono, connesse alla vita dell'impiego sicuro, diverse cose sgradevoli, tra l'altro la lenta distruzione della salute fisica e spirituale. S'intende qui ricordare timidamente il sistema nervoso.

Così scriveva nel 1913 Robert Walser. Quasi cento anni fa.
Leggendo le sue pagine ho l'impressione di capire quanto di meravigliosamente brillante ci sia nella storia di ogni giorno, e quanto di banalmente mediocre ci sia nella leggenda di una vita.

sabato 26 dicembre 2009

pioggia che cade

Una frase di Borges ricorda gli oggetti che ci circondano, di cui ci serviamo ogni giorno anche senza pensarci, e che ci sopravviveranno. Credo che Borges l'abbia scritta in un momento di esaltazione, perché attribuisce loro l'assenza di un ricordo, e un'indifferenza nei confronti di chi le adopera (dice infatti che non si accorgeranno neppure della nostra scomparsa). Ma io non ne sono così convinto, a me sembra quasi di intuire, in certi momenti, che "invecchino" con noi, che ci sia una specie di legame che lega a distanza delle vite che si sono incontrate e hanno proceduto vicine.

In un altro libro, che si chiama Il taglio del bosco, il protagonista Guglielmo è appunto un taglialegna. Accanto alle preoccupazioni del bosco da tagliare e del carbone da produrre, i suoi pensieri tornano sempre alla moglie morta da poco, alle parole che lei voleva dirgli quando sul letto gli rivolgeva uno sguardo denso, senza riuscire a dire nulla. Il significato di quello sguardo continua a turbare Guglielmo, che desidera che il tempo passi in fretta per lui, che i giorni si succedano ai giorni, alle stagioni e agli anni, forse per affrettare una fine, forse per sapere, da malato, che cosa lei aveva voluto dirgli con gli occhi.

E ora incontro un'altra citazione, questa volta dalla Bibbia: I tempi correranno più in fretta di quelli passati, e più che le passate voleranno le età, e gli anni fuggiranno più rapidi di quelli presenti.
Tutto questo mentre per me i giorni del Natale sono i più lunghi e interminabili, e mi chiedo se sarà mai possibile che passino.

lunedì 7 dicembre 2009

un inverno freddo e ostile di una Le Havre in guerra


Scene e linguaggio dicono al lettore: "sei capitato in un mondo deformato, assomiglia al tuo ma non lasciarti ingannare".
uno scrittore enigmista che fa il critico

Direi di sì, è proprio così. Il mondo di queste pagine è una specie di sintesi di quello del di fuori, ridotta all'essenziale: cose e persone sono figure senza molto spessore, che si muovono sulla Storia in modo brusco e frammentato. Sono sgrossati senza andare troppo per il sottile.
Tutta l'architettura del libro è costruita secondo regole della poesia, e forma una specie di intricato sistema simbolico che è possibile intuire sotto la superficie: dice l'autore che "si possono far rimare situazioni e personaggi così come si fanno rimare delle parole".
Apparentemente, una storia semplice. Un po' più al di sotto, un esperimento letterario e una descrizione psicologica allo stesso tempo.



Un rude inverno è scritto in quello stile straordinario di Raymond Queneau, in cui l'ortografia s'intona all'ispirazione del momento.
lo scrittore che si critica

Se è vero che una persona può scrivere nella vita al massimo un paio di libri perfetti, certamente questo non è uno di questi. Ma il tono fresco e fischiettante è un viso giocoso con cui presentarsi al mondo.



Un romanzo in cui apparentemente non capitano molte cose, e che pure si incammina piano piano verso l'inesauribile.
un altro scrittore che fa il critico

In effetti, la vicenda del libro si riassumerebbe in due righe. In realtà, se ne parla ma non si riesce ad avere la sensazione di esaurirlo.
È affascinante ripercorrere le assonanze fra la storia e la biografia del suo autore, pensare a quando il libro è ambientato e quando l'autore lo sta scrivendo, e scoprire molti dettagli autobiografici.
La Storia che incombe e si ripete nella vita del singolo è una delle ossessioni del suo autore, come le coincidenze, i dettagli, il dolore, quello che rende inesauribile il libro.

lunedì 16 novembre 2009

ricordo esatto

Tutto ha inizio un giorno di neve, a Parigi, in rue de Fleurus, il 9 gennaio 1979.
…vedo venirmi incontro Madeleine che mi dice che Jérôme Lindon ha telefonato a casa in tarda mattinata, che il manoscritto a quanto pare gli interessa, che vuole che lo chiami al più presto. Sono le quattro del pomeriggio.
Jean Echenoz

A parte per il casuale inizio, Rue de Fleurus non si incontrerà più in questa storia. La via importante sarà rue Bernard Palissy.
Rue Bernard Palissy è poco distante a piedi da rue de Fleurus: si costeggia il Luxembourg in rue Guynemer verso Saint-Germain, e si prosegue verso nord in rue Bonaparte, oppure si imbocca direttamente rue Madame e la si segue per cinque isolati, per poi immettersi verso destra in rue de Rennes e svoltare subito dopo a sinistra, poco prima della fermata del Metro Saint-Germain-des Prés.
Rue Bernard Palissy è molto breve, in posizione nascosta ma allo stesso tempo al centro della rive gauche più autentica e insieme fittizia, a pochi passi dalla storica libreria La Hune e dal Café de Flore. Sul lato sud, più o meno a metà via, si trova la sede delle Editions de Minuit, in un edificio alto e sottile come le sue scale interne e come la figura del suo presidente, Jérôme Lindon.

Secondo i rapporti dell'ufficio meteorologico francese, i primi giorni di gennaio 1979 hanno registrato un'anomala ondata di freddo molto intenso in tutto il Paese, compresa la regione parigina. Il mattino del primo gennaio, la temperatura a Lille scende a -16°, il 4 e 5 gennaio una tempesta di neve parallizza le regioni del Nord, Parigi inclusa, e l'esercito deve intervenire per liberare le strade in cui erano rimasti bloccati molti automobilisti in viaggio. Il 6 gennaio il termometro segna -19° a Caen.
Ad ogni modo, Echenoz riesce a raggiungere senza problemi rue Bernard Palissy da Place d'Italie, dove si era recato nel frattempo per un appuntamento di lavoro fissato per le cinque (l'appuntamento si rivelerà un successo, Echenoz verrà assunto). Echenoz si sposta ora in macchina, una Renault 4L, che Madeleine gli aveva lasciato incontrandolo poco prima al Luxembourg: lei rincaserà con il Metro.
Dopo aver firmato il contratto di pubblicazione del suo primo romanzo (senza leggerlo), prima di tornare a casa a Montreuil e annunciare sorridente a Madeleine la notizia (lei è al telefono, lui le mostra il contratto senza interromperla), Echenoz si reca al vicino supermercato di rue de Rennes (non sono neppure le sette, quindi è ancora aperto), dove acquista una cartelletta in cui conservare il prezioso documento senza spiegazzarlo.
Nel suo racconto, nitido per il modo in cui è così facile vedere e sentire tutto ciò che vedeva e sentiva, Echenoz non fa menzione del freddo, che pure deve essere stato pungente in quei giorni.

Da qui, la storia prende senza dubbio un'altra strada, che si insinuerà nel rapporto fra un autore e un editore, soprattutto una storia per aneddoti e immagini.
Non ci sono altre strade e altri luoghi da menzionare per completarne il racconto, salvo il ristorante Le Sybarite, in rue du Sabot, in cui Lindon e Echenoz pranzeranno in occasione delle visite di quest'ultimo al suo editore. Uno dei motivi per cui Jérôme Lindon si reca ogni giorno a pranzo da Le Sybarite, dove beve soltanto acqua, è che Rue du Sabot è a due passi dalla sede delle Editions de Minuit, a pochi metri in linea d'aria.
Una delle cose che Echenoz scoprirà negli anni, è che quando un autore pranza col suo editore, è sempre l'editore che paga il conto.

sabato 14 novembre 2009

fiori e non annoiarsi

C'è un esempio che faccio sempre, della differenza tra bere un bicchiere d'acqua da un bicchiere di carta o da un bicchiere di cristallo.
C'è un rapporto, tra il modo di bere da un bicchiere di carta o un bicchiere di cristallo, assolutamente diverso.
Penso che se si beve dal bicchiere di cristallo − perché è più pesante, più fragile, e devi quindi rispettare questa fragilità tenendolo in mano in un'altra maniera, perché quando lo avvicini alle labbra non ha sapori che corrompono il sapore dell'acqua, e così via − nascono un'infinità di piccole emozioni sensoriali, per cui quando bevi dal bicchiere di cristallo sai che stai bevendo, perché l'oggetto ti spinge a sapere che esisti. Quando bevi da un bicchiere di carta, bevi in fretta e butti via il bicchiere: la tua vita non è esistita in quel momento. La consumi senza sapere che la stai consumando.
Mi sono sempre preoccupato di questo non sapere che si sta vivendo. Mi interessa molto sapere che sto vivendo, drammaticamente vivendo.
Ettore Sottsass

Il tempo, com'è naturale, di minuto in minuto progrediva.
Il suono regolare e sordo delle campane in una sera buia e fredda d'autunno mi fa sollevare gli occhi, e penso a nient'altro che al suono familiare delle campane, che ho spesso avuto vicine, e al silenzio che si crea dappertutto mentre loro suonano, un po' solenni, puntuali e precise a ricordare qualcosa.

domenica 1 novembre 2009

sollucchero


Il libro che sto leggendo è pacificamente troppo pesante, perché le riflessioni dell'autore si concatenano in maniera disinvolta seguendo il filo del suo pensiero, e talvolta è difficile riuscire a seguirlo. Non solo perché non esiste una trama (sono divagazioni sparse tenute insieme da un disegno che si trova ad un livello molto più alto di quello del lettore comune, e che è legato ad altre opere precedenti e future dello stesso autore), ma anche per la sconfinata densità e erudizione del discorso, e infine anche per un tono ottocentesco magniloquente e un po' sordo.
Sicuramente, in queste prime pagine, ho trattenuto l'importanza dell'analogia e della profondità per Baudelaire, e dell'immagine come punto di partenza del suo discorso in prosa e poesia. Ma quello che è certo è che queste pagine le ho dovute leggere con una concentrazione disperata, ripercorrendo più volte dei passaggi per cercare di dissipare l'impressione interlocutoria che mi lasciavano in un primo momento. Sono spesso frasi senza momenti di pausa, che inanellano senza posa altisonanti citazioni e le concatenano liberamente ad un ritmo serratissimo, così che in un solo paragrafo si è già scivolati leggeri su questioni di estetica o letteratura senza che nessuno ci abbia avvertito.

A questo punto, sono stato preso da un doppio sentimento: abbandonare il libro a se stesso oppure consumarlo sottolineandolo, per sgrossare quello che voglio assorbire da quello che si cancellerà nella memoria. Un po' un tornare indietro a quando i libri li si studiava per dare gli esami, ed erano effettivamente libri di testo.
Ma purtroppo La folie Baudelaire è un prestito della biblioteca, e dato che non desidero investire una certa somma per acquistarlo, rimarrà ancora in bilico per qualche tempo.

Piuttosto, mi sono imbattuto in un articolo illuminante qualche giorno fa. Parlava di finanza, di crisi e di mercati. Anche di teorie classiche e di teoria dei giochi. Spiegava che, per come sono oggi le regole del gioco, comportamenti perfettamente razionali e prudenti a livello individuale diventano potenzialmente catastrofici se perseguiti a livello collettivo.
Un articolo leggero e molto straight, forse perché scritto da un americano.

domenica 4 ottobre 2009

bagagli


La scoperta casuale dell'Isola delle rose su una rivista mi ha fatto pensare ad un tempo in cui si seguiva la rotta dei visionari. Naturalmente, in contrapposizione ad un tempo in cui la caratteristica più importante è la paralisi di ogni decisione, i contrappesi incrociati che rendono l'equilibrio difficilmente rovesciabile.
A 12 chilometri al largo della costa di Rimini, nel 1968 un anarchico ingegnere bolognese, Giorgio Rosa, costruisce un'isola artificiale su piloni in acciaio resistenti alla forza delle onde. In acque internazionali, la piattaforma prende il nome di Isola delle rose e la forma di una nuova micronazione, con la sua lingua ufficiale, i suoi francobolli, qualche nave di passaggio che attracca incuriosita per bere qualcosa al bar.

Dopodiché, ho ammesso di dimenticare spesso che la vita si svolge nella realtà. In un film esiste una trama e un copione, e un attore non può improvvisare e disinteressarsene, partire per la tangente dei suoi pensieri, altrimenti il film non può vedere la luce. Pensandoci con attenzione, nella realtà invece non esistono istruzioni da seguire, perché nessuno sa come va a finire.
La realtà mi sembra a volte così impalpabile e ingombrante allo stesso tempo.

domenica 27 settembre 2009

cattiva reputazione


In un'intervista del 1969, Georges Brassens ha quarantotto anni, e non si dichiara un poeta. Ha la morte di un'amica alle spalle, un passato da prigioniero e problemi di salute piuttosto seri e ricorrenti; è palesemente un poeta, se non altro perché ha già pubblicato poesie, ma rispondendo a una domanda precisa, si ritrae e afferma di non esserlo. Insomma, la gente pensa che lui sia un poeta, non c'è nulla di male, ma lui fa canzoni, ecco tutto.

Credo che non ci sia dubbio che Brassens sia stato un poeta, ma penso anche che questo non abbia nessuna importanza, e che lui abbia detto la verità. La reticenza è spesso l'ultima possibilità, e a volte la sola verità. Oltretutto, se si riesce a gettare lo sguardo al di là, spesso non si vede nulla. Pare infatti che la vera creazione nasca dal vuoto e dal sé, due cose che di solito sono dette incomunicabili con parole.

domenica 20 settembre 2009

i detective selvaggi


Interrompo la lettura, si parla dei bagni pubblici del Messico e del protagonista abituato a leggere a Parigi sotto la doccia, slavando così irrimediabilmente le pagine. Ricordo che Warhol aveva scritto (in "America") che una delle cose che si sentiva di suggerire al governo era quella di creare nelle città degli immensi bagni pubblici e gratuiti, dove chiunque potesse lavarsi e prendersi cura di sé.

In realtà, non sono nemmeno a metà del libro, ma annoto comunque alcune prime impressioni: la soverchiante quantità di nomi di persona (forse tutti quelli possibili, che compaiono nella totale ramificazione di storie e personaggi) e la descrizione dei poeti come eroi nel mondo (eroi selvaggi e clandestini, in un certo senso). Ho ritrovato anche il nome di Arcimboldi, che ricompare in un'altra veste in un libro successivo, l'ultimo libro dello stesso autore.

Recentemente ho cominciato a inviare mail a persone "pubbliche", per criticare cose che non condivido. Ho pensato che fa sempre bene, non si sa mai.
E comincio di nuovo a sentire la mancanza di cose che non conosco, e anche una grande voglia di fare che mi piace molto, voglia di non perdere tempo.

venerdì 31 luglio 2009

canzone al buio



I'm lingering, I'm lost
I'm floating nowhere like
A wasp in October
Summer's over and done

These empty dreams of mine
Are out of place and out of time
Is just a grain of sand for me

Seasons change
Memories fade
Daydreams fall like golden leaves

Another day
I'm watching dreams just slip away
The summer moon
Gives way to autumn's dusky bloom
Seeds I've sown
Are almost spent, I'm here alone

Wandering I roam
Beneath the half light of forgotten sunsets
Searching for my home

Inside this lonely place
I'm chasing shadows like a wasp in October
Fading in the wind

Seasons change
Memories fade
Daydreams fall like golden leaves

Um dia de mas
Meu sonho desapareceu
Lua no céu
Rio da noite, coração
Sozinha aqui
Você não lembra mais de mim

Another day
I'm watching dreams just slip away
The summer moon
Gives way to autumn's dusky bloom
Seeds I've sown
Are almost spent, I'm here alone

lunedì 27 luglio 2009

invenzioni


Mio Dio, mio Dio! Da tanto tempo desideravo cominciare uno scritto con questa inutile invocazione. Ed ecco, almeno questo avrò fatto.

Mi si diceva che bisognerà che trovi un legame fra i libri, che sarebbe meglio ci fosse un filo rosso a legare le letture fra loro. Io non sono d'accordo (ma forse un filo rosso c'è, anche se non è detto che qualcuno sappia riconoscerlo, me compreso).
Sta di fatto che, prima di iniziare una nuova lettura, volevo riportare una citazione dell'ultimo libro che ho letto, breve ma estenuante, barocco e intricato. Una lingua quasi antica nel suo timbro ricercatissimo, imbevuta di termini ritrovati da un mondo passato. Una specie di diario che non racconta nulla, ma che divaga e inventa, e divagando e inventando racconta chi scrive.

M'annoio, lettore. Se qualcuno si darà un giorno la pena d'esaminare il presente manoscritto vedrà che la sua prima lettera è tracciata con somma cura: un'iniziale da calligrafo che m'aiutò a passare un paio di minuti della mia vita.

domenica 19 luglio 2009

"io non cerco, io trovo"


Vale la pena accorgersi che ogni momento passa?
Durerà il tempo di un pomeriggio, mi dicevo, quel cielo pulito dal temporale, umido e trasparente. Dai finestrini del treno, vedevo montagne a destra e sinistra, nitide e vicine, e passando del tempo ad osservarle mi accorgevo di quanto fosse un evento raro.
Leggevo intanto come John Cage, per poter comprendere il silenzio e la sua essenza, si fosse fatto chiudere in una camera anecoica, e avesse scoperto che, in assenza di qualsiasi rumore esterno, sentiamo quantomeno il flusso del sangue nelle vene e il battito che lo guida. Distogliendo gli occhi dalla pagina e dalla sensazione di fragilità che mi dava, ricordavo il suono stridente e attutito dell'avanzare di una lumaca su una foglia, che avevo visto ne Il pianeta azzurro, un suono ugualmente impercettibile ma reale.

Di nuovo, fra questi pensieri avevo la sensazione che non ci fosse un motivo vero e forte per cui ero in viaggio, e forse non avrei saputo rispondere a chi mi avesse chiesto perché. Mi sentivo al mio posto, ma non me lo sapevo spiegare, e non capivo nemmeno se dopotutto un posto ne valeva un altro.
Non so per quale ragione, non mi riusciva nemmeno di dare peso a queste domande, e ho continuato a leggere e a guardare il paesaggio dando solo l'impressione di essere assorto.

Stasera vorrei addormentarmi con il suono della pioggia, che mi ricorda il passato ed è lo stesso sottofondo del rumore del sangue che scorre nelle vene, ma non ci sarà. Ancora per un po' saliranno delle voci isolate dalla strada, fuori dal bar. Se non chiuderò gli scuri potrò guardare un pezzo di cielo mentre mi addormento, ma la luce robusta della mattina mi sveglierà troppo presto.

martedì 14 luglio 2009

il sole in fronte


A ben vedere da sempre, il suo legame con il mondo fu dei più labili. Non giunse mai a stabilirsi da nessuna parte, mai poté disporre di qualcosa di suo, fosse pure l'oggetto più insignificante. Non ebbe mai una casa né mai abitò a lungo nello stesso luogo, di arredi suoi non ne aveva - non solo uno - e, quanto al guardaroba, era fornito al massimo di un abito buono e di quello per tutti i giorni. Perfino di ciò che occorre ad uno scrittore nell'esercizio del proprio mestiere, non c'era praticamente nulla che egli potesse dire suo. In fatto di libri non possedeva, credo, nemmeno quelli scritti da lui. Ciò che leggeva, di solito lo prendeva in prestito. Anche la carta su cui scriveva era di seconda mano. Così sprovvisto come fu in vita sua di ogni bene materiale, altrettanto distaccato si mantenne dai suoi simili.

Sono stato contento di aver ricevuto (anch'io in prestito) il libro da cui vengono queste parole, e di averlo letto stasera stessa al tavolino illuminato dal lampione, nel tempo di una birra fresca nella densa afa della sera.
Nell'infinita distanza che separa ognuno da ogni cosa al di fuori di sé, sono sempre attirato dal modo di essere di Robert Walser, così estraneo al mondo nella sua malinconica follia. Negli anni di Berlino, delle ambizioni letterarie, c'era in lui l'eccentricità e lo slancio di chi si getta a capofitto oltre le cose. Poi credo che sia cresciuta la convinzione che esisteva già in silenzio prima di tutto, il senso di inevitabilità di ogni cosa, l'assenza e il ripiegamento su se stesso fino a scomparire.
Mimetizzarsi fra le cose, dare loro un'anima perché i sentimenti sono profondi là dove si accostano a quello che c'è di più effimero. Affacciarsi sulla scena con delicatezza, sopportare il peso del nulla come quanto di più umano sia dato sentire.
Confesso però che a volte la lettura delle sue pagine mi è riuscita sbagliata, non per le raffinate acrobazie verbali dei primi libri ma per la mia difficoltà a riconoscere questa sua umanità nelle parole. Sono sicuro che verrà il tempo.

mercoledì 1 luglio 2009

sera cronica


Credo che una delle delusioni più grandi sia quella del momento in cui si comprende che la propria sarà un'esistenza ordinaria. La comprensione netta che ogni cosa tenderà a ripetersi mascherandosi nella fretta e nell'indolenza. E anche, che ogni cosa è sempre quell'unica cosa, che tutto è già iniziato da un pezzo e resterà lasciato a metà. E soprattutto, che di tutto questo non sembra esserci un motivo preciso.

Sto leggendo il primo dei racconti di una raccolta intitolata Cinema naturale, in cui il protagonista non riesce a raccontare nulla perché durante il suo viaggio non gli riesce mai di trovare una penna.
Dal cinema ci sono tornato proprio ora, dove ho visto un film che mi ha incuriosito e deluso allo stesso tempo, Il mondo di Horten; mi sono sembrate tante idee vivaci, che mi hanno ricordato Il poema dei lunatici, lasciate a mollo però in un sottofondo come tanti altri.
A volte vorrei vivere in un poema, credo che mi piacerebbe molto.

Forse a ben vedere ogni esistenza è ordinaria, e la nostra sarà solo ordinaria fra l'ordinario.

lunedì 29 giugno 2009

cardinal.martini@corriere.it


ADM, ti ringrazio per quello che mi scrivi. Sono anch'io convinto che l'amore di Dio è una grande forza soprattutto per il momento della morte. Talvolta mi sveglio di notte con la sensazione della morte vicina, specialmente quando il respiro sembra mancare. Le tue parole mi danno conforto e mi aiutano a guardare con fiducia a ciò che succederà. 

Queste parole sono comparse sul giornale ieri, come risposta ad una lettera, e le ho trovate umane nel modo di porsi accanto a delle persone comuni. In altre risposte, ho riconosciuto i contorni di una volontà di non nascondere o omettere la verità, anche se scomoda.
Mi sono domandato cosa avrei chiesto io, se avessi dovuto scrivere una lettera al Cardinal Martini, e la risposta è stata vaga. Mi sembrava senza senso giocarsi tutto in una domanda, come se ce ne potesse essere una risolutiva. Avrei preferito probabilmente stare ad ascoltare.

Ricordo che a Torino, una sera, ad una serata in piazza con Emanuele Severino, un ascoltatore aveva preso la parola dopo una serie di domande tecniche e difficili, e aveva chiesto, in due parole, "perché il male?". La domanda era semplice e diretta, niente a che fare con i quesiti accademici precedenti, e aveva lasciato dietro di sé l'improvviso silenzio, risentimento o velati sorrisi.
Più che la domanda o la risposta, mi aveva colpito la massima serietà con cui Severino l'aveva accolta, e il suo cercare di districare una questione senza tempo nel tempo di poche frasi. Mi è sembrato il desiderio di essere onesto di fronte ad una domanda legittima, e mettersi al servizio di un altro.

Mi pare che i momenti in cui si crede di intuire una verità densa e sospesa arrivino improvvisamente quando non ci si sta riflettendo. Si crea una breve pausa in cui si rimane come assordati e storditi, lievemente e quasi piacevolmente, poi tutto si dissipa e torna come prima. 
Pensavo a questo qualche giorno fa, in occasione di una cena in riva al lago, in cui per un momento mi è sembrato di sentirmi fuori posto in ogni luogo. 
Ora, che ci ripenso e tento di scavare in quella sensazione, non riesco più a capire, e tutto mi sfugge ancora. Mi domando di cosa ho scritto, e perché.

giovedì 18 giugno 2009

trama

Martedì mattina, al banco del prestito, una signora spiegava al bibliotecario come fosse stata da poco al mercato degli schiavi, o forse erano fiori?, in ogni caso non era riuscita a trovare quello che stava cercando. Metteva il libro preso in prestito in una borsa di plastica da supermercato e prendeva solerte la via dell'uscita. 
La sera del giorno dopo, invece, uscivo dal cinema poco affollato, dove mi ero attardato a guardare scorrere i titoli di coda in attesa del nome di un brano che mi era piaciuto, e scoprivo che era tratto da Cavalleria rusticana.
Tornando a piedi verso casa, nell'aria della sera più fredda del solito dopo una giornata di pioggia e di vento, mi accorgevo che la pavimentazione del marciapiede su cui camminavo era la stessa di quella che avevo sempre visto da piccolo, di fronte al terrazzo di casa. Costeggiavo persone e locali senza avvertirli, e sotto i portici continuavo a camminare fino alla piazza, saggiando con la mano aperta la presenza delle colonne, delle case e dei loro mattoni, come chi non ha ancora riacquistato del tutto l'equilibrio. 

Non mi sembra che ci sia nulla a legare insieme eventi così apparentemente diversi, ma non posso nemmeno essere sicuro del contrario. 

Una voce in strada ha appena detto di andare a prendere le sigarette. 

domenica 14 giugno 2009

proprietà


I titoli dei giornali proclamano che questi sono giorni decisivi, che servono azioni concrete, che la ricreazione è finita. È tempo di terapie di concretezza, riforme, riassetti, risorse.
Sono anni che sono giorni decisivi, basta con questi titoli, altrimenti ci si potrebbe credere veramente.

Oggi ho comprato due giornali, e quasi tutto il pomeriggio è passato a leggerli. Un po' a casa, un po' in piazza al sole, un po' sui gradini della chiesa.
Mi sono fatto l'idea che lo spessore di un giornale si misura in base alle aspettative: quando so già cosa ci troverò scritto anche senza comprarlo, allora non ne vale la pena. Forse per questo non ho comprato Repubblica, ho scelto il Corriere e il Sole 24 Ore.
Nel prestigio di firme e nell'imbarazzante impalpabilità delle pagine culturali del Corriere, ho trovato alcune soprese nel consueto panorama di fiacca prudenza, stranamente con meno cronaca del solito. Nel giornale di Confindustria c'era il discorso mai fatto di Fini a Gheddafi, i soliti pistolotti noiosissimi di Giuliano Amato, i soliti paladini del mercato a parole, diverse facce giulive e qualche curiosità interessante.

Continuo ad avere l'impressione che mi sfugga qualcosa, mi sento stordito e tutto mi indispone. Mi chiedo che fine abbiano fatto alcune persone (Forleo, Scaramella, i monaci tibetani, Tanzi, Ricucci...), mi dico che decisamente tutto è iniziato già da un pezzo, e tutto resterà lasciato a metà.

martedì 2 giugno 2009

storie e omissioni


Mi chiamo Carlo Melada, sono nato a Milano il 17 maggio 1932. La mia vita l'ho sempre passata in questa grande città che amo molto, è stata una vita, purtroppo ho passato un periodo brutto della guerra, una vita un po' tribulata di miseria, di stenti, però una vita discreta. Sono figlio unico, ho abitato fino a 26 anni con i miei genitori, abitavo in via Prina, una trasversale di Mac Mahon, un quartiere dove di politica si parlava poco, case di cortile, si viveva in questi cortili, le strade erano libere e giocavi nel mezzo. Mi ricordo, lì era tutta gente che andava a lavorare, c'era proprio la spaccatura no? Durante la settimana l'abito di lavoro, la tuta, e la domenica mettevi il vestito della festa. E ancora a me è rimasta questa tradizione, io difficilmente l'abito che metto durante la settimana lo metto anche alla festa quando ho un abito particolare. [...]

Mi chiamo Gian Battista Cappelletti: sono nato al 20 dicembre del 1939 a Brembio, un piccolo paese del Lodigiano che oggi ha 2340 abitanti. Ho fatto la quinta elementare, la mia è una famiglia di nove figli, il papà e la mamma, non è che c'era molto da mangiare, però mi ricordo anche dei momenti bellissimi assieme ai miei amici e compagni. Al ritorno dalla scuola andavamo, mi ricordo, o a giocare al pallone all'oratorio, oppure, al giovedì, che era festa, nei campi dove c'erano i nidi per vedere di prendere i passerotti. Dei tipi di razze vivevano in gabbia, altri li mangiavamo. Poi andavamo per rane oppure andavamo a giocare con dei giochi che al giorno d'oggi nessun bambino penserebbe di fare, giocavamo con dei cerchi che sono i cerchi delle biciclette. Giocavamo alla lippa che era un gioco fatto con un bastone, oppure giocavamo al pallone anche in mezzo alla strada perché nelle strade di Brembio di macchine ce n'erano pochissime. [...]

Queste e altre sono esistenze antiche, che sembrano molto più antiche del tempo che è passato. Sono state trascritte in un Archivio del lavoro, che dà umanità a dei nomi di luoghi e di cose ormai senza più un volto: Alfa Romeo, Innocenti, Falck, Arese, Sesto San Giovanni...

Ma se il presente è così lontano, mi chiedo quanto lo sia il passato, quanto lontano possa mai essere. Il passato sono le occasioni che sono venute, mi hanno sfiorato e mi si sono sedimentate lentamente accanto, sempre più impalpabili, fino a scomparire.
Ci rifletto, e mi sembra che questa sia anche l'immagine del futuro: anche il futuro è fatto di occasioni che passeranno e lascerò affondare a poco a poco, e il mio tempo proseguirà per la sua strada.

tutto è cominciato già da un pezzo
tutto resterà a mezzo e niente si conclude...

domenica 17 maggio 2009

A.M. 1980


Non so se mettere sul tavolo un vaso di fiori. / Non so se i critici sappiano dipingere. / Non so se guardare la gente dentro agli occhi. / Non so se spostare un poco quel divano. / Non so se verificare l'esattezza dei dati. / Non so se quella persona si ricordi di me. / Non so se accendere la lavastoviglie. / Non so se Palladio mi abbia influenzato. / Non so se disturbare quella quiete. / Non so se colorare rosa o azzurro quell'oggetto. / Non so come definire la parola architettura. / Non so se mettermi a gridare improvvisamente. / Non so se stia bene il tappetino accanto al letto. / Non so se impostare con metodo le mie teorie. / Non so se bere acqua così fredda. / Non so se usare marmo oppure materia plastica. / Non so se studiare il Dadaismo. / Non so se smetterla con la sensibilità. / Non so se preoccuparmi di imbiancare le pareti. / Non so se la vita sia del tutto banale. / Non so se sia meglio il centro oppure la periferia. / Non so perché milioni di persone abbiano tanta fame. / Non so se sia bene uccidere il tempo. / Non so se chiedere aiuto al muratore. / Non so se si debba restare in Occidente. / Non so se domani avrò male alla testa. / Non so se applicare il regolamento. / Non so se mettere le cose in ordine alfabetico. / Non so se io stesso sia un terrorista. / Non so se comperare pareti componibili. / Non so se progettare un luogo per la morte. / Non so se aumentare il grado di cinismo. / Non so se interessarmi dei prefabbricati. / Non so se convenga lavorare tanto. / Non so se accarezzare affannosamente il gatto. / Non so se le facciate debbano avere le finestre. / Non so se sia meglio riposare un poco. ...

Non so se modificare questa citazione per renderla più vicina a me.
Alla fine mi dico che è impossibile scrivere tutto, e che anche se mi sembra troppo tecnica, chi la legge potrà farla propria e continuare in ogni direzione, e ricordare giornate di sole, un caffè, un ripensamento.

domenica 10 maggio 2009

senza troppa convinzione


Ancora una mostra di fotogiornalismo, fotoreportage, documenti di guerra e di storia... basta.
Questa la mia prima reazione di fronte allo striscione verticale che da lontano si faceva sempre più nitido: Questa è la guerra. Robert Capa al lavoro. In contemporanea, Gerda Taro: un fotografo giapponese o una fotografa tedesca?

Vinco lo scetticismo ed entro, per scoprire dopo poco la storia di due pseudonimi, insieme alle loro fotografie con i repubblicani nella guerra civile spagnola. Lui usava il formato rettangolare, lei quello quadrato.
Lui aveva soltanto 22 anni quando aveva scattato la sua foto più famosa, il miliziano colpito a morte da una pallottola nemica. Lei moriva durante una ritirata. Lui continuava a viaggiare in tutti i teatri di guerra, e inviare le fotografie ai giornali.
Mi sono emozionato guardando i suoi appunti per le didascalie delle foto, scritti in un miscuglio di lingue, gli originali delle lettere dal fronte scritte ai propri famigliari, la storia di una valigia di rullini che scompare a Parigi e ricompare in Messico e viene restituita agli eredi da un regista onesto.

Guardando le fotografie e le loro date, mi sono chiesto chi fra quelle persone potesse essere ancora vivo, e ho fissato negli occhi molta gente che ora è morta, e che ha vissuto senza sapere che io l'avrei rivista molto tempo dopo, facendomi domande a cui solo loro avrebbero potuto rispondere.

lunedì 27 aprile 2009

volto del tempo


Poco fa ho spento tutte le luci, ho aperto la finestra e mi sono affacciato a guardare. Il palazzo di fronte ha due stanze illuminate, e seguendolo con lo sguardo si rastrema nelle sue file regolari di davanzali e cornici, fino a terminare solo un po' più in là nella grande cupola che rischiara il cielo come isolata.
Ho sentito l'accogliente silenzio della pioggia che cade solitaria sui ciottoli e nelle pozzanghere, scivola nelle grondaie e sulle foglie dei balconi, e ho sentito forte la mancanza di qualcuno con cui parlare la sera, con cui ascoltare questo silenzio senza fine.

Sono andato nell'altra stanza e ho preso un libro, perché mi piaceva l'idea di averlo vicino. Si chiama BN 194, è una raccolta di ricordi di famiglia, 194 fotografie e carte varie in bianco e nero che si susseguono nelle pagine, senza testo. Solo un piccolo albero genealogico e le didascalie.
L'ho sfogliato senza ordine, perché la vita non ha trama, e ho ricordato quando l'autore me ne ha parlato, e mi ha detto di essersi divertito.

Mi piace restare al buio ancora un altro po', intuire i contorni degli oggetti nella stanza e sentire il profumo dell'aria umida e pungente da fuori.
Tra poco accenderò una luce, e aprirò un altro libro.

sabato 25 aprile 2009

primo sole


Stavo leggendo un libro in cui si dice che una donna, per scrivere letteratura, deve avere per sé denaro e spazio sufficienti, quando davanti a me sono passate due signore, un'anziana su una carrozzella, vestita con una giacca imbottita invernale, e l'altra che la spingeva sul lastricato di mattoni. Questa parlava a voce alta, un po' all'anziana che non intendeva e un po' a se stessa, e ringraziava di aver ricevuto il lavoro, e affermava che quando si chiede si viene ascoltati, sempre.
Io ero seduto su una sedia al sole, sedia che avevo trovato abbandonata sotto il portico e avevo spostato un po' in là nella piazza deserta. Il sole scaldava e abbagliava, e mentre alzavo di poco gli occhi pensavo che dopotutto era ben poca cosa, quanto la badante aveva ricevuto. Ma intanto le due signore si erano allontanate, e io ero fermo. Avevano raggiunto l'ombra dal lato opposto della piazza, e scomparivano dietro i vasi di piante e qualche macchina immobile. E allora ho creduto che forse lei ne sapeva più di me, e che non c'era motivo di non credere alle sue parole.
Poi, dal transetto della chiesa sono sfociati dei turisti vocianti, che hanno ammirato il silenzio e gettato uno sguardo sull'unica persona intorno, apparentemente seduto a leggere un libro su una donna e la letteratura.

Una parentesi.
A volte, passare dei giorni vicino a una persona mi serve per contemplare in lei e ricordare a me stesso modi e atteggiamenti da cui tenermi lontano: in un certo senso, mi indispone e mi rassicura allo stesso tempo. Questo è quanto ho pensato ogni giorno nel corso del mio ultimo viaggio.
Ma di ritorno, i pensieri sono occupati da un rimescolamento interiore, dalla sensazione di essere uno strumento di dolore e sofferenza.

lunedì 13 aprile 2009

nuove impressioni


Ho preso la decisione di scrivere di quello che è successo per assimilare l'errore che ho fatto venerdì (o è stato giovedì?). Un errore che mi è balzato agli occhi domenica, il giorno di Pasqua, mentre la sera dopo cena mi lavavo i denti. Guardandomi di sfuggita nello specchio, senza che stessi pensando a nulla, meno che mai al lavoro, ho trovato l'errore. Nel tumulto delle cose, era riuscito a passare inosservato, a mimetizzarsi senza farsi notare, e non dev'essergli stato così difficile, per la verità. Una volta riconosciuto, però, non mi ha dato più pace, è un pungolo che tormenta i pensieri e riappare ogni volta che non ho altro per la testa.
Non ho scelta, devo aspettare il domani, e sperare di poterlo osservare tramite una lente che lo rimpicciolisca e lo dimentichi con una scrollata di spalle o un sorriso leggero.

In questo weekend, ho sentito nell'ordine l'indifferenza, il timore di ferire, la sensazione di far passare il tempo, l'impressione di essere nel bel mezzo di un grave errore, il fermo proposito di, il soffio variopinto del parlare e quello avvolgente del silenzio.
Ho steso una nuova lista di prossime letture, ma con il tempo scopro che la lista si dilata, e di questo sono molto contento.
Ho scoperto che la casa dei genitori di un'amica non esiste più, e ho appuntato mentalmente la cosa quasi come un fatto accaduto fra gli altri, e di questo ho molta paura.
Sono ripreso a tratti dalla mia ansia di fare, e a volte anche dall'impressione che manchi poco alla partenza, verso dove non so, e di questo credo di essere contento.

mercoledì 1 aprile 2009

nel passato


Come in un negativo che si sviluppa, volti remoti ricompaiono in questi che mi circondano: gente sparita dalla terra e dalla memoria, gente dissolta nel nulla, e che invece si ripete senza saperlo nelle generazioni, in una eternità della specie, di cui non si comprende se sia il trionfo della vita o il trionfo della morte.

Mentre Salvatore Satta terminava il suo primo e unico libro, nevicava. Una neve leggera che si posava sulle vie e sugli alberi come il tempo sopra tutte le cose, e che tutto avrebbe reso uguale. Un po' come se, visti dall'alto, tutti si confondano in una moltitudine informe e indistinta, dove il singolo perde davvero ogni valore e la vita è un puro fatto di quantità.
Ma non è solo questo: è che veramente, senza saperlo, noi siamo l'ombra di chi ci ha preceduto, personaggi di un romanzo storico che percorre come per la prima volta strade già battute. Qualche giorno fa, ho voluto contrassegnare a me stesso alcune tappe di questo percorso, per ricordare e rassicurarmi, e ho segnato alcune date importanti, come il 28 febbraio 1909, il 12 gennaio 1996, l'8 marzo 1966, il 17 marzo 2008.
Mi sono anche detto che mi sarebbe piaciuto sapere che tempo faceva il giorno della mia nascita, perché saperlo avrebbe voluto dire distinguere veramente quel giorno da ogni altro, toglierlo dall'indistinta lontananza in cui si trova, come quando si dà un nome a un oggetto e questo diventa unico e familiare, e ho scoperto che la temperatura media di quel mese era 23,1 °C, la più alta di tutto l'anno e per molti mesi e anni ancora.

domenica 15 marzo 2009

emigrati


Ricordo il caso Adelwarth come se fosse ieri, soprattutto perché coincise con l'inizio di una radicale trasformazione del mio pensiero che, nel corso del decennio successivo alla morte di Fahnstock, mi spinse a ridurre sempre più e infine ad abbandonare l'attività di psichiatra. Dalla metà di maggio del 1969 - ho festeggiato da poco i quindici anni di pensione - vivo qui fuori, nel capanno delle barche o nella baracca degli alveari a seconda delle condizioni atmosferiche, e per principio non mi occupo più di ciò che accade nel cosiddetto mondo reale. Non c'è dubbio che, in un certo senso, adesso il pazzo sono io; ma, come forse lei sa, è una pura questione di prospettiva. Che la casa di cura Samaria sia vuota, lo avrà visto con i suoi stessi occhi. Rinunciarvi fu la premessa per conseguire il distacco dalla vita. Nessuno, credo, riuscirà mai a farsi un'idea adeguata della sofferenza e dell'infelicità che si sono accumulate in questo bizzarro palazzo di legno e che ora, come spero, andranno gradatamente scemando a misura del suo sfacelo.

Un passatempo che mi ha sempre attirato a sé è quello di scorrere le liste degli ultimi volumi pubblicati nelle ultime pagine dei libri. Sono liste che incolonnano i nomi senza descriverli, senza dare loro un ordine o una vicinanza che non sia quella del momento in cui sono stati pubblicati.
Trovo nomi più e meno conosciuti, titoli spesso solo intravisti di sfuggita fra gli scaffali in libreria, e perdo minuti e minuti a dare un volto agli autori, alle loro esistenze e alle storie che raccontano, a domandarmi cosa mi piacerebbe leggere e cosa invece non mi attira per nulla.
Ho passato un weekend di riposo che ho imposto a me stesso, avrei voluto leggere molto ma in questi casi c'è sempre un forte scostamento fra quanto mi propongo di fare e quello che ho fra le mani alla fine. Da un lato, la sensazione di un'incessante attività che poi non porta a nulla, dall'altro la percezione di un intrappolamento nelle maglie del quotidiano che però a volte dà i suoi frutti. Difficile venirne a capo, sullo sfondo restano però progetti e desideri più e meno lontani, da scoprire al momento opportuno.

giovedì 12 marzo 2009

Frédérique


Oggi mi è stato riletto un brano di un libro in cui si parlava di tristezza.
Riletto perché quel libro lo avevo già letto tempo fa, ma questo passo non era rimasto impresso nella memoria, ed è suonato come nuovo.
Mi è capitato spesso, negli ultimi giorni, di avere fra le mani libri che avevo dimenticato, sfogliarli e non riconoscere quasi le mie sottolineature, vederli all'inizio come un oggetto capitato chissà come fra le mie cose.

Un libro che non scorderò è I beati anni del castigo. È stato per me un rarefatto succedersi di immagini, coagulate attorno alla vita nei collegi femminili della Svizzera degli anni Cinquanta. Parole nervose e intense, immagino l'autrice come persona cui le cose hanno insegnato a essere distante da tutto, e a guardarle con il distacco e l'assenza necessari per vivere.
Quasi pagine di solido vivere, come se fosse un compito che non si è scelto, una distrazione da qualcosa di indistinto sullo sfondo, un buon viso a cattivo gioco.

mercoledì 18 febbraio 2009

risveglio


Mi siedo su una sedia - una sedia pieghevole da giardino - e penso al futuro. Voglio credere che un giorno sarò felice, che un giorno qualcuno mi vorrà bene. Ma è già tanto tempo che conto sul futuro!
Ogni giorno mi siedo su una sedia da giardino, che trovo molto leggera e modesta, e ci rimango a lungo prima di lasciarla la sera. Non ricordo il giorno in cui ho iniziato a usarla, ma credo che dipenda dal fatto che ogni cosa non ha un inizio e una fine precisi.

[...] Morante passò a narrarmi il suo microtesto sui dintorni del Vesuvio e cominciò dicendo che nei giorni della sua seconda giovinezza, verso gli anni settanta, tutto era obbligatorio e andava fatto con ordine accurato. Le cose, per esempio, iniziavano tutte dal principio e finivano con il finale. Perciò, in quei giorni, erano state una grossa sorpresa per lui, e non le aveva mai dimenticate, alcune dichiarazioni del cineasta Godard in cui sosteneva che gli piaceva entrare nelle sale cinematografiche senza sapere a che ora iniziasse il film, entrare a caso durante una sequenza qualsiasi, e andarsene prima che il film fosse terminato. Sicuramente Godard non credeva che l'argomento e la trama fossero importanti. E forse aveva ragione. Non era per niente chiaro se un frammento qualsiasi della nostra vita potesse essere precisamente una storia completa, con un argomento, un principio e una fine.
Il punto e a capo era qualcosa di intrinseco alla letteratura, ma non al romanzo della nostra vita. "A me pare che la vita non abbia trama [...]"

Negli ultimi tempi, mi sveglio con la sensazione che sia l'ultimo giorno prima di una partenza, non so bene per dove. Solo un ultimo sforzo, e poi finalmente qualcosa di sempre desiderato e atteso, non so bene cosa. Una sensazione prima molto forte, poi meno decisa ma sempre presente, latente. Anche qui, non ricordo il momento preciso in cui l'ho riconosciuta una mattina per la prima volta, ma per me rimane più reale di molti passaggi obbligati che succedono ogni giorno a se stessi.

Pensavo anche a questo ieri sera, mentre la luce molto tenue delle candele illuminava il buio e creava riflessi dorati sull'acqua.

domenica 8 febbraio 2009

tempo instabile avviato al miglioramento


Il bello è che non si può mai essere sicuri che non menta, che non deformi i fatti a suo piacimento. Eppure, anche facendolo, è sincero. Se scrive, ad esempio, "Mi imbattei nel mio interno preferito l'altro giorno, guardando un programma televisivo..." può anche riferirsi a un giorno di diversi anni fa, e non per questo mentire.

Io mi sono imbattuto veramente stamattina nel suo articolo su "Una casa come un cervello", e l'ho letto mentre facevo colazione con il tè e le fette di pane con la marmellata di limoni e mandarini.
Al 31 di rue Saint-Guillaume a Parigi c'è la casa che Enrique Vila-Matas ama, alla quale piacerebbe assomigliassero gli interni del proprio cervello. È stata disegnata da Pierre Chareau fra il 1928 e il 1932, ha interni ariosi e lineari e un cortile foderato con regolari file di mattonelle di vetrocemento.
Scrive Vila-Matas: Quando la settimana scorsa decisi di andare a dare un'occhiata all'esterno dell'architettura che tanto ammiravo, non ricordavo a quale numero della via si trovasse questa casa di vetro, e non mi riuscì di scovarla.
Con Paula de Parma percorsi per ben due volte la breve rue Saint-Guillaume, dall'inizio alla fine, e niente. Ne dedussi che avessero fatto sparire la Maison de Verre. [...]

Qualche ora più tardi, al mio ritorno a Barcellona, quasi fosse una conseguenza logica della mia ricerca di un interior design ideale, incappai assolutamente per caso in un libro che risultò essere perfetto per quello che cercavo: Casa. Un titolo sobrio per il romanzo dello scrittore peruviano Enrique Prochazka (Lima, 1960). Il libro, strutturato come se la mente dell'autore fosse audace e labirintica quanto la casa di cui narrava, si apriva con una solenne citazione di César Vallejo: "Una casa vive solo di uomini, come una tomba". [...]
Mi furono sufficienti quattro righe per riconoscere i bagliori di un'intelligenza fuori del comune quando lessi che viveva da tempo "in quella specie di lontana Sydney dello spirito che si chiama Lima", che passeggiava solo, il sabato notte, passando per tutti i centri culturali e i caffè, e che non lo conosceva nessuno, che nessuno lo salutava o tanto meno conosceva la sua faccia. "Mi cancellai in pace, anni fa. Entro alla libreria El Virrey piena di clienti, compro un libro, due libri, esco dalla libreria: nessuno sa chi sono. Mi cancellai...".

Vila-Matas passa da una casa di vetro a un cervello labirintico, e poi a un romanzo sugli interni della propria coscienza, e poi a un autore che vuole scomparire.
Ecco, questo scomparire ricorda da vicino un altro personaggio: il dottor Pasavento. Il suo eroe morale è Robert Walser, di cui ammira il desiderio di ritirarsi dal mondo e la ripugnanza per il potere. E come lui, arriva a confondersi piano con il tutto, e si converte nel nulla.
Coincidenza notevole, il dottor Pasavento è il personaggio che dà il nome al libro che Enrique Vila-Matas ha scritto nel 2005. Prima o dopo aver letto Prochazka? Prima o dopo non aver visto la Maison de Verre? Non ha importanza, e del resto dipende da che punto di vista si guarda, forse anche contemporaneamente. Sicuramente, però, un legame c'è, perché il libro di Vila-Matas è dedicato proprio alla sfuggente figura di Paula de Parma.

In mancanza di girasoli, ieri ho comprato dei fiori gialli, e li ho sistemati in un vaso rosso vicino alla finestra.

giovedì 29 gennaio 2009

è breve sogno


Solo et pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l'arena stampi.

Oggi avrei letto poesie ad alta voce, ma non so se avrei saputo trovare quelle che avrei voluto.
Oggi ho scoperto che Ambrogio ha scritto prima di molti altri che la proprietà è un furto: Natura igitur ius commune generavit, usurpatio ius fecit privatum.
Ho ascoltato storie di dubbi e di cambiamenti, pensando all'intimo della mia inquieta immobilità.
Ho ripensato che bisognerebbe creare un artista già morto, che rifacesse le opere di altri prima di loro (cioè dopo, visti da qui).
Ho avuto voglia di disegnare dei rami fioriti in un vaso.
Ho riassaporato la labilità di una sera creduta ricca di idee, che passa come un'onda sulla sabbia senza lasciare traccia.

...et del mio vaneggiar vergogna è 'l frutto,
e 'l pentersi, e 'l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.

domenica 18 gennaio 2009

discussioni in treno


Mi è capitato di osservare la vita di persone che avevo di fronte, di ascoltare le loro storie e avere l'impressione di riconoscere un sottofondo comune nel loro procedere, quasi legato a delle leggi biologiche inconsapevoli ma inevitabili, che agiscono silenziose lasciando l'impressione che ogni cosa sia un caso fortuito o una fortunata coincidenza.
Da ogni individuo, in un momento della sua esistenza che può variare da persona a persona, nascono delle radici, che fanno presa sul mondo che lo circonda e lo ancorano a poco a poco. È un processo lento e impercettibile, ma sufficientemente veloce perché un giorno, all'improvviso, si scopra che qualcosa è cambiato e non è più come prima, che il cambiamento ha un prezzo e il compromesso è una possibilità. Le radici nascono da sé, come per una legge non scritta, e non importa dove uno si trovi e cosa stia facendo: attecchiscono in quel momento senza nessun perché, e sorprendono a cose fatte. Si stabilizza un lavoro, si sedimenta il rapporto con una città, si consolida la relazione con una persona, questo è il mettere radici. È il cristallizarsi e l'indurirsi di situazioni che prima potevano non esserlo.
Se è così, se veramente succede senza riguardo per le decisioni o i desideri, allora quel lavoro, quella città, quella persona non sarebbero l'ideale frutto di una scelta, ma avrebbero semplicemente il merito di essere stati al posto giusto nel momento giusto, non migliori in assoluto rispetto al passato o al futuro, o ad altre possibilità che non conosco, ma semplicemente quelle in cui una persona si trova quando è giunto il momento di questa modificazione dentro di sé.

mercoledì 14 gennaio 2009

una sera


Ci sono momenti in cui mi sembra di ubriacarmi di quotidiano, stordirmi fino a non capire più nulla e ad accorgermene irrimediabilmente troppo tardi.
Ci sono momenti in cui mi sento soffocare in un solido nulla, da cui mi si tolgono gli attimi dolci e intensi che rimarranno ricordi di una stagione perduta.
Mi dibatto come un insetto che non sa ancora che è arrivata la sua fine, per me nient'altro che il dissolvermi nel solido nulla di cui dicevo.
Mi consola l'immaginare di poter parlare a lungo, e sentirmi capito, da V.

mercoledì 7 gennaio 2009

una parabola


Nulla posseggo, nulla so, nulla posso, nulla ho imparato.
Ho ricevuto in regalo Siddharta, e ho finito di leggerlo in viaggio, credo in un bar una sera. La prima impressione, una volta giunto alla fine, è stata una lieve delusione: quanto appassionante era stata la continua ricerca di Siddharta, tanto insipido mi era sembrato il risultato. Quanto profondamente intime e vere le pagine sull'insegnamento della verità, sull'amore e sul tempo, tanto lontano e rinunciatario l'ipotetico panteismo in cui ogni oggetto è adorato perché è ed è sempre stato tutto.
Subisco però il fascino del pensiero a cui Siddharta arriva dopo gli anni della sua vita: di ogni verità, anche il contrario è vero.
Mi coinvolgono le pagine sul ruolo dell'insegnamento nella ricerca di ognuno. Il voler spiegare il mondo in un messaggio crea inevitabilmente categorie e modi di pensare che sono necessari per rendere comprensibile e trasmissibile l'intuizione iniziale, ma che in un modo o nell'altro finiscono per distorcerla e allontanarla dalla sua purezza. La saggezza in realtà è incomunicabile, e suona agli altri anzi come una pazzia; la vera illuminazione non proviene da una dottrina che si studia, ma da un'esperienza che io soltanto posso fare sulla mia pelle. L'uomo che cerca veramente non può accogliere nessuna dottrina; l'uomo che ha trovato, quello può salutare con gioia ogni dottrina.
Percepisco la grande distanza fra due modi di vedere e vivere: come mi era apparso visitandola di persona, in India la vita del singolo non ha valore. Nessun orgoglio, nessuna individualità e unicità, ma ognuno soltanto come un pezzo nomade dell'anima del tutto, che non aspira ad altro che ad annullarsi e fondersi una volta per tutte con il tutto da cui proviene.
In realtà, la discontinuità che sembra esserci tra mondo e eternità, fra male e bene, è un'illusione.