lunedì 29 giugno 2009

cardinal.martini@corriere.it


ADM, ti ringrazio per quello che mi scrivi. Sono anch'io convinto che l'amore di Dio è una grande forza soprattutto per il momento della morte. Talvolta mi sveglio di notte con la sensazione della morte vicina, specialmente quando il respiro sembra mancare. Le tue parole mi danno conforto e mi aiutano a guardare con fiducia a ciò che succederà. 

Queste parole sono comparse sul giornale ieri, come risposta ad una lettera, e le ho trovate umane nel modo di porsi accanto a delle persone comuni. In altre risposte, ho riconosciuto i contorni di una volontà di non nascondere o omettere la verità, anche se scomoda.
Mi sono domandato cosa avrei chiesto io, se avessi dovuto scrivere una lettera al Cardinal Martini, e la risposta è stata vaga. Mi sembrava senza senso giocarsi tutto in una domanda, come se ce ne potesse essere una risolutiva. Avrei preferito probabilmente stare ad ascoltare.

Ricordo che a Torino, una sera, ad una serata in piazza con Emanuele Severino, un ascoltatore aveva preso la parola dopo una serie di domande tecniche e difficili, e aveva chiesto, in due parole, "perché il male?". La domanda era semplice e diretta, niente a che fare con i quesiti accademici precedenti, e aveva lasciato dietro di sé l'improvviso silenzio, risentimento o velati sorrisi.
Più che la domanda o la risposta, mi aveva colpito la massima serietà con cui Severino l'aveva accolta, e il suo cercare di districare una questione senza tempo nel tempo di poche frasi. Mi è sembrato il desiderio di essere onesto di fronte ad una domanda legittima, e mettersi al servizio di un altro.

Mi pare che i momenti in cui si crede di intuire una verità densa e sospesa arrivino improvvisamente quando non ci si sta riflettendo. Si crea una breve pausa in cui si rimane come assordati e storditi, lievemente e quasi piacevolmente, poi tutto si dissipa e torna come prima. 
Pensavo a questo qualche giorno fa, in occasione di una cena in riva al lago, in cui per un momento mi è sembrato di sentirmi fuori posto in ogni luogo. 
Ora, che ci ripenso e tento di scavare in quella sensazione, non riesco più a capire, e tutto mi sfugge ancora. Mi domando di cosa ho scritto, e perché.

giovedì 18 giugno 2009

trama

Martedì mattina, al banco del prestito, una signora spiegava al bibliotecario come fosse stata da poco al mercato degli schiavi, o forse erano fiori?, in ogni caso non era riuscita a trovare quello che stava cercando. Metteva il libro preso in prestito in una borsa di plastica da supermercato e prendeva solerte la via dell'uscita. 
La sera del giorno dopo, invece, uscivo dal cinema poco affollato, dove mi ero attardato a guardare scorrere i titoli di coda in attesa del nome di un brano che mi era piaciuto, e scoprivo che era tratto da Cavalleria rusticana.
Tornando a piedi verso casa, nell'aria della sera più fredda del solito dopo una giornata di pioggia e di vento, mi accorgevo che la pavimentazione del marciapiede su cui camminavo era la stessa di quella che avevo sempre visto da piccolo, di fronte al terrazzo di casa. Costeggiavo persone e locali senza avvertirli, e sotto i portici continuavo a camminare fino alla piazza, saggiando con la mano aperta la presenza delle colonne, delle case e dei loro mattoni, come chi non ha ancora riacquistato del tutto l'equilibrio. 

Non mi sembra che ci sia nulla a legare insieme eventi così apparentemente diversi, ma non posso nemmeno essere sicuro del contrario. 

Una voce in strada ha appena detto di andare a prendere le sigarette. 

domenica 14 giugno 2009

proprietà


I titoli dei giornali proclamano che questi sono giorni decisivi, che servono azioni concrete, che la ricreazione è finita. È tempo di terapie di concretezza, riforme, riassetti, risorse.
Sono anni che sono giorni decisivi, basta con questi titoli, altrimenti ci si potrebbe credere veramente.

Oggi ho comprato due giornali, e quasi tutto il pomeriggio è passato a leggerli. Un po' a casa, un po' in piazza al sole, un po' sui gradini della chiesa.
Mi sono fatto l'idea che lo spessore di un giornale si misura in base alle aspettative: quando so già cosa ci troverò scritto anche senza comprarlo, allora non ne vale la pena. Forse per questo non ho comprato Repubblica, ho scelto il Corriere e il Sole 24 Ore.
Nel prestigio di firme e nell'imbarazzante impalpabilità delle pagine culturali del Corriere, ho trovato alcune soprese nel consueto panorama di fiacca prudenza, stranamente con meno cronaca del solito. Nel giornale di Confindustria c'era il discorso mai fatto di Fini a Gheddafi, i soliti pistolotti noiosissimi di Giuliano Amato, i soliti paladini del mercato a parole, diverse facce giulive e qualche curiosità interessante.

Continuo ad avere l'impressione che mi sfugga qualcosa, mi sento stordito e tutto mi indispone. Mi chiedo che fine abbiano fatto alcune persone (Forleo, Scaramella, i monaci tibetani, Tanzi, Ricucci...), mi dico che decisamente tutto è iniziato già da un pezzo, e tutto resterà lasciato a metà.

martedì 2 giugno 2009

storie e omissioni


Mi chiamo Carlo Melada, sono nato a Milano il 17 maggio 1932. La mia vita l'ho sempre passata in questa grande città che amo molto, è stata una vita, purtroppo ho passato un periodo brutto della guerra, una vita un po' tribulata di miseria, di stenti, però una vita discreta. Sono figlio unico, ho abitato fino a 26 anni con i miei genitori, abitavo in via Prina, una trasversale di Mac Mahon, un quartiere dove di politica si parlava poco, case di cortile, si viveva in questi cortili, le strade erano libere e giocavi nel mezzo. Mi ricordo, lì era tutta gente che andava a lavorare, c'era proprio la spaccatura no? Durante la settimana l'abito di lavoro, la tuta, e la domenica mettevi il vestito della festa. E ancora a me è rimasta questa tradizione, io difficilmente l'abito che metto durante la settimana lo metto anche alla festa quando ho un abito particolare. [...]

Mi chiamo Gian Battista Cappelletti: sono nato al 20 dicembre del 1939 a Brembio, un piccolo paese del Lodigiano che oggi ha 2340 abitanti. Ho fatto la quinta elementare, la mia è una famiglia di nove figli, il papà e la mamma, non è che c'era molto da mangiare, però mi ricordo anche dei momenti bellissimi assieme ai miei amici e compagni. Al ritorno dalla scuola andavamo, mi ricordo, o a giocare al pallone all'oratorio, oppure, al giovedì, che era festa, nei campi dove c'erano i nidi per vedere di prendere i passerotti. Dei tipi di razze vivevano in gabbia, altri li mangiavamo. Poi andavamo per rane oppure andavamo a giocare con dei giochi che al giorno d'oggi nessun bambino penserebbe di fare, giocavamo con dei cerchi che sono i cerchi delle biciclette. Giocavamo alla lippa che era un gioco fatto con un bastone, oppure giocavamo al pallone anche in mezzo alla strada perché nelle strade di Brembio di macchine ce n'erano pochissime. [...]

Queste e altre sono esistenze antiche, che sembrano molto più antiche del tempo che è passato. Sono state trascritte in un Archivio del lavoro, che dà umanità a dei nomi di luoghi e di cose ormai senza più un volto: Alfa Romeo, Innocenti, Falck, Arese, Sesto San Giovanni...

Ma se il presente è così lontano, mi chiedo quanto lo sia il passato, quanto lontano possa mai essere. Il passato sono le occasioni che sono venute, mi hanno sfiorato e mi si sono sedimentate lentamente accanto, sempre più impalpabili, fino a scomparire.
Ci rifletto, e mi sembra che questa sia anche l'immagine del futuro: anche il futuro è fatto di occasioni che passeranno e lascerò affondare a poco a poco, e il mio tempo proseguirà per la sua strada.

tutto è cominciato già da un pezzo
tutto resterà a mezzo e niente si conclude...