martedì 22 aprile 2008

un lancio di dadi


Se finisco un libro che mi ha affascinato, mi rimane il sapore fra le labbra, e non voglio iniziarne un altro per paura di dimenticarlo troppo in fretta.

Sui gradini della piazza silenziosa, mentre il caldo giusto ancora non arriva, questa sera ho letto le ultime pagine di Alessandro o Della verità, di Arno Schmidt. Quattro racconti scritti negli anni ‘50 e ambientati nell'antichità: l'io narrante è un vecchio visionario che fugge da una prigione cartaginese, uno scienziato che vuole misurare la circonferenza del mondo a piedi, un discepolo di Aristotele che si mette in viaggio per conoscere di persona Alessandro, un filosofo pagano fra i cristiani della corte di Giustiniano.

Impossibile descrivere le frasi traboccanti che si accatastano veloci l’una sull’altra, tutto il ribollire di astronomia e società e sogno insieme. La mia naturale diffidenza verso i personaggi storici o quasi calati nei romanzi ha gettato la spugna: troppo visionario per non affascinare.

martedì 8 aprile 2008

casa d'altri


Fu una sera. Sul finire d’ottobre.
Me ne venivo giù dalle torbe di monte. Né contento né triste: così. Senza nemmeno un pensiero. Era tardi, era freddo, ero ancora per strada: dovevo scendere a casa, ecco tutto.

Casa d’altri è un racconto scritto da un giovane, Silvio D’Arzo, in cui l’io narrante è un anziano prete di montagna, sulle valli emiliane vicino a Bobbio. L’ho letto perché mi è stato regalato, e ho trovato semplicità e quotidianità, anche nella domanda più difficile che non si lascia nemmeno pronunciare.
Nel frattempo avevo comprato Lavorare stanca, di Cesare Pavese, attirato dall’idea di una poesia narrativa, quasi parlata, dalla descrizione della consuetudine e dell’identico che vivono nell’uomo, e non dell’evento assoluto e unico.
Scoprivo poi che Pavese aveva rifiutato per Einaudi il racconto di Silvio D’Arzo, lo aveva giudicato una novella “gracile”, e mi perdo a pensare al perché. Dopotutto, oltre questa gracilità, ho visto un profondo senso di inquietudine umana, che viene proprio dal fatto di non sentire il mondo come casa propria, casa d’altri, che forse anche Pavese doveva provare.

C’è quassù una cert’ora. I calanchi ed i boschi e i sentieri ed i prati dei pascoli si fanno color ruggine vecchia, e poi viola, e poi blu.