domenica 15 marzo 2009

emigrati


Ricordo il caso Adelwarth come se fosse ieri, soprattutto perché coincise con l'inizio di una radicale trasformazione del mio pensiero che, nel corso del decennio successivo alla morte di Fahnstock, mi spinse a ridurre sempre più e infine ad abbandonare l'attività di psichiatra. Dalla metà di maggio del 1969 - ho festeggiato da poco i quindici anni di pensione - vivo qui fuori, nel capanno delle barche o nella baracca degli alveari a seconda delle condizioni atmosferiche, e per principio non mi occupo più di ciò che accade nel cosiddetto mondo reale. Non c'è dubbio che, in un certo senso, adesso il pazzo sono io; ma, come forse lei sa, è una pura questione di prospettiva. Che la casa di cura Samaria sia vuota, lo avrà visto con i suoi stessi occhi. Rinunciarvi fu la premessa per conseguire il distacco dalla vita. Nessuno, credo, riuscirà mai a farsi un'idea adeguata della sofferenza e dell'infelicità che si sono accumulate in questo bizzarro palazzo di legno e che ora, come spero, andranno gradatamente scemando a misura del suo sfacelo.

Un passatempo che mi ha sempre attirato a sé è quello di scorrere le liste degli ultimi volumi pubblicati nelle ultime pagine dei libri. Sono liste che incolonnano i nomi senza descriverli, senza dare loro un ordine o una vicinanza che non sia quella del momento in cui sono stati pubblicati.
Trovo nomi più e meno conosciuti, titoli spesso solo intravisti di sfuggita fra gli scaffali in libreria, e perdo minuti e minuti a dare un volto agli autori, alle loro esistenze e alle storie che raccontano, a domandarmi cosa mi piacerebbe leggere e cosa invece non mi attira per nulla.
Ho passato un weekend di riposo che ho imposto a me stesso, avrei voluto leggere molto ma in questi casi c'è sempre un forte scostamento fra quanto mi propongo di fare e quello che ho fra le mani alla fine. Da un lato, la sensazione di un'incessante attività che poi non porta a nulla, dall'altro la percezione di un intrappolamento nelle maglie del quotidiano che però a volte dà i suoi frutti. Difficile venirne a capo, sullo sfondo restano però progetti e desideri più e meno lontani, da scoprire al momento opportuno.

giovedì 12 marzo 2009

Frédérique


Oggi mi è stato riletto un brano di un libro in cui si parlava di tristezza.
Riletto perché quel libro lo avevo già letto tempo fa, ma questo passo non era rimasto impresso nella memoria, ed è suonato come nuovo.
Mi è capitato spesso, negli ultimi giorni, di avere fra le mani libri che avevo dimenticato, sfogliarli e non riconoscere quasi le mie sottolineature, vederli all'inizio come un oggetto capitato chissà come fra le mie cose.

Un libro che non scorderò è I beati anni del castigo. È stato per me un rarefatto succedersi di immagini, coagulate attorno alla vita nei collegi femminili della Svizzera degli anni Cinquanta. Parole nervose e intense, immagino l'autrice come persona cui le cose hanno insegnato a essere distante da tutto, e a guardarle con il distacco e l'assenza necessari per vivere.
Quasi pagine di solido vivere, come se fosse un compito che non si è scelto, una distrazione da qualcosa di indistinto sullo sfondo, un buon viso a cattivo gioco.