domenica 24 gennaio 2010

allo stesso posto


Non voglio fare nient'altro
se non vegliare ancora un po',
è così bello rimanere soli
ancora desti e vivi.
Posso già stare coricato a metà
e fino al sonno già cullarmi
nel sogno.
-
Pregare è stasera
tutto ciò che mi resta da fare.
L'ho terminato, il giorno,
ho vigilato su di esso
e ora posso riposare.
-
La bella poesia deve essere secondo me un bel corpo, che deve fiorire da parole misurate poste smemoratamente, quasi senza idee sul foglio.

Chissà perché non avevo apprezzato, a suo tempo, le poesie che avevo letto di Robert Walser. Forse perché le avevo lette come avrei letto un giornale, in fretta come una storia scorrevole di cui non si vede l'ora di scoprire la fine.
Oggi, risfogliando quel libro, credo che andrebbe letto costringendosi alla lentezza, e magari anche accantonato e ripreso liberamente nel tempo. Un po' come anche i suoi racconti, talmente intrisi di un animo da riempire il mio dopo poche pagine, da sentire il bisogno di una pausa per ripensare e far sedimentare, se possibile.
Un suo racconto ha lo stesso peso di un romanzo di un altro ipotetico autore: non è possibile leggerne in quantità senza fare confusione ed essere sopraffatti. È giocoforza centellinare.

Proprio nei suoi racconti, continuo a ritrovare personaggi che nascono da Walser stesso, dalle sue impressioni e preoccupazioni; a volte mi sembra che sia lui stesso a parlare nella sua vita di ogni giorno, a volte invece credo che stia facendo recitare un personaggio che avrebbe voluto essere, ma che non era. Non è sempre chiaro dove finisca uno e incominci l'altro, ed è bello che sia così.

lunedì 18 gennaio 2010

Anche nello spessore dei muri si può leggere il desiderio di possedere il tempo

Viaggiare mi piace perché mi dà la possibilità di vedere, soprattutto mi fa osservare molte cose dal finestrino. Spesso il viaggio ha un'andata e un ritorno (al punto di partenza), ma è quando non ne ha che assomiglia molto all'esistenza, che non è scritta su un copione e quindi sembrerebbe lasciare spazio all'improvvisazione.
Il vero viaggiare, credo, si accompagna ad un riflettere, che riesce quasi naturale e spontaneo per il semplice sfilare di paesaggi e dettagli nuovi, ma proprio per questo è anche molto difficile. L'attenzione è catturata da tutto questo inedito, e si è troppo occupati a registrarlo senza pause per poter pensare a quello che si vede. Per questo, alcuni fotografano dal finestrino, perché un'istantanea può sempre essere utile a richiamare una sensazione o eventualmente mostrarla ad altri.
Credo però che le espressioni più belle siano quelle che nascono immediatamente, e che bisogna essere pronti a fissare in qualche modo se non hanno la forza di conservarsi a lungo nella mente (come secondo me il più delle volte succede).
Il pensiero del titolo, che è la frase che più mi ha colpito in un libretto di Sottsass, nasce da uno dei suoi viaggi, in Iran nel 1998, dall'osservazione del muro di un antico edificio in rovina. Un muro spesso e possente, ad esempio, costruito con materiali forti e incorruttibili, può aspirare a consegnare all'eternità un edificio, una cassaforte di memorie e un supporto infinito di pensieri.
Ma come dice Sottsass stesso, quel desiderio dell'uomo è destinato ad esaudirsi raramente. Infatti, sembra che non ci sia idea, per generosa che sia, capace di resistere al tempo.

martedì 12 gennaio 2010

osmosi

In a gallery of over 20,000 square feet,
David Hammins simply shut off all the lights
and handed visitors small keychain flashlights.
Although it would probably take hours or days to be absolutely sure of it,
equipped only with their tiny blue lights,
most viewers soon realized
there was nothing in the space.
Some joked it was a visual art exhibition
to which blind people could relate.
Others feared they would get lost in the vast darkness
and never find their way out.

Mi attirano le esperienze di chi si confronta, perdendo in partenza, con la dimensione dell'infinito. Cercare con costanza, custodendo l'intima certezza che non si troverà nulla, mi sembra a volte la scelta paradossalmente più logica, equilibrata e sensata possibile. È un tentare cosciente di stare il più vicino possibile a quello che si è, alla condizione autentica di ognuno.
Nella sua metodica sconfitta, si dice che sia un po' come l'uomo cieco che, in una stanza buia, stia cercando un gatto nero che non è lì.
Per me, nella frase di Antony Huberman, la riga da mettere in grassetto è la quarta.

domenica 10 gennaio 2010

una specie di paralisi


Ho provato una sensazione familiare, che ho collegato subito con il sentirmi a casa, ascoltando un video ripetitivo e ipnotico montato all'ingresso di una mostra. Solo poi ho scoperto che si intitolava Teaching a plant the alphabet, ripromettendomi anche di cercare di saperne di più.
Mentre mangiavo al tavolino del bar del museo, sentivo sillabe sempre uguali ripetersi quasi all'infinito. Allora mi ha contagiato una sensazione di torpore, rallentando i miei movimenti, e mentre finiva il pomeriggio ho percepito avvolgermi un alone ovattato, molto distintamente ma senza che nessuno se ne accorgesse.


In realtà, già poco prima mi ero soffermato davanti ad un altro video, che aveva catturato la mia attenzione senza apparentemente dirmi nulla. Non era soltanto la bellezza della protagonista, o il sottofondo musicale profondamente torbido; mi sembrava esserci dell'altro, quasi un'intuizione senza uscita, o il desiderio di un calore. Sì, forse il desiderio e la nostalgia di un calore.
Oggi però, a qualche giorno di distanza, l'impressione sembra svanita. Sento una mancanza, ma sono sicuro che ritornerà.