lunedì 13 dicembre 2010

Le Cose, di Georges Perec, è nello scaffale più in alto

Un appartamento nella grande città, ampio e luminoso, arredato con gusto discreto ma personale, con stanze ariose dove la vita è leggera e semplice, dove tutti i problemi di un'esistenza materiale trovano una soluzione naturale e immediata.
Un lungo corridoio dai soffitti alti, un soggiorno con divani e pareti ricoperte da scaffali di libri, una camera da letto dai colori avvolgenti, uno studio stipato di carte in un fitto ordine e poltrone antiche ovattate.
Un ambiente domestico che non conosce l'amarezza o il rancore, che dedica il proprio spazio soltanto a vivere, liberamente godere ogni singolo momento della vita.

Sarebbe loro piaciuto essere ricchi. Credevano che avrebbero saputo esserlo. Avrebbero saputo vestirsi, osservare, sorridere come della gente ricca. Avrebbero avuto il tatto, la discrezione necessari. Avrebbero dimenticato la loro ricchezza, sarebbero stati in grado di non esibirla. Non se ne sarebbero vantati. L'avrebbero respirata. I loro piaceri sarebbero stati intensi. Avrebbero amato camminare, andare a spasso, scegliere, apprezzare. Avrebbero amato vivere. La loro vita sarebbe stata un'arte di vivere.

Jerome e Sylvie, 24 e 22 anni, hanno da poco finito l'università. Siamo negli anni in cui la macchina economica dell'occidente non ha molto tempo da perdere, e per chi lo desidera un lavoro e una carriera sono possibilità facili da afferrare. Jerome e Sylvie sono psicosociologi, fanno sondaggi di mercato per delle agenzie di pubblicità.

Con i loro amici, spesso, la vita era vorticosa.
Erano una compagnia, una squadra. Si conoscevano bene; avevano, scolorando gli uni negli altri, abitudini comuni, gusti e ricordi in comune. Avevano il loro vocabolario, i loro gesti, i loro modi di dire. Troppo evoluti per somigliarsi perfettamente, ma, senza dubbio, non ancora abbastanza per non imitarsi più o meno consapevolmente, passavano gran parte della propria vita in scambi di questo tipo. Se ne irritavano spesso; se ne divertivano ancora più spesso.

Vivevano per quei momenti propizi, istanti preziosi di quando, spingendo la porta di un locale, si è investiti dalla calda atmosfera accogliente, il tintinnio delle posate e dei bicchieri, che sapevano cogliere forse un po' meglio degli altri, e che portava loro una piacevole sensazione di calma, quasi torpore, per un attimo, e esaltava tutto quello che c'era di effimero e fragile in quelle piccole gioie.

Ma i pericoli li attendevano da ogni parte. Avrebbero voluto che la loro storia fosse la storia della felicità; ma era, troppo spesso, quella di una felicità minacciata. Erano ancora giovani, ma il tempo passava in fretta. Un vecchio studente, era qualcosa di sinistro; un fallito, un mediocre, è ancora più sinistro. Avevano paura.

Forse non avevano le idee chiare. Forse la generazione precedente, messa di fronte a una situazione così drammatica, a una guerra e un'occupazione, aveva saputo formarsi una coscienza più chiara di se stessa.
Ma una guerra imperversava anche allora: la guerra d'Algeria, con la sua retorica e la sua diversa e lontana eco. Fu grazie alla guerra che riuscirono a mettere da parte per un attimo le loro preoccupazioni personali.

Non avrebbero saputo dire esattamente cosa fosse cambiato con la fine della guerra. A lungo sembrò loro che la sola impressione che potessero sentire fosse quella di una fine, di una conclusione languente, malinconica, che lascia dietro di sé un sentimento di vuoto, di amarezza, nutrendo i ricordi nell'ombra. Il tempo se n'era andato; un'epoca era finita; la pace era arrivata, una pace che non avevano mai conosciuto; la guerra terminava. In un colpo solo sette anni balzavano nel passato.
Uno dopo l'altro, tutti gli amici soccombevano. Al tempo della vita senza ormeggi succedeva il tempo delle sicurezze. Jerome e Sylvie furono severi, furono ingiusti. Parlarono di tradimento, di abdicazione.

A volte, per delle ore intere, per dei giorni, un desiderio frenetico di essere ricchi, subito, immensamente, s'impadroniva di loro e non li lasciava più. Era un desiderio folle, malato, oppressivo, che governava ogni loro gesto. Ovunque andassero, erano attenti soltanto al denaro. Avevano incubi da milioni di gioielli.
Frequentavano le grandi aste di Drouot, di Galliera. Si mescolavano ai signori che, catalogo alla mano, esaminavano i quadri. Attraversavano residenze, scuderie, laboratori, hangar, forni, silos e garages che facevano parte delle loro proprietà in campagna, miraggi dei loro desideri.

Tentarono di fuggire. Otto mesi a Sfax, in Tunisia, insegnanti nella scuola locale. Fuggirono e trovarono le settimane e i mesi del deserto, senza ricordi e senza memoria, uguali gli uni agli altri.

Tutto avrebbe potuto continuare così. Avrebbero potuto restare tutta la loro vita. Il denaro non sarebbe mancato. Alla fine sarebbero riusciti a trovare un posto a Tunisi. Si sarebbero fatti dei nuovi amici. Avrebbero comprato una macchina. Avrebbero avuto una bella villa, con un grande giardino, a Marsa, a Sidi-Bousaid, a El Manza.

Ma non potevano scampare al loro destino. Il tempo, ancora una volta, avrebbe lavorato al posto loro. Sentirono la mancanza della primavera sulla Senna, del loro albero in fiore, della Place des Vosges. Emozionati, si ricordarono della loro libertà così cara, delle grasse mattinate, delle cene a lume di candela.
- E se ritornassimo, dirà uno.
- Potrebbe essere tutto come prima, dirà l'altra.

Per le loro ultime ore a Sfax, rifecero, gravemente, la loro passeggiata rituale.

Rivedranno Parigi e sarà un'autentica festa. Andranno a zonzo lungo la Senna, nei giardini del Palais-Royal, nelle stradine di Saint-Germain. Ogni notte sarà un nuovo invito. Accarezzeranno i flaconi di profumo, sfioreranno le cravatte.
Tenteranno di vivere come prima. Riproveranno con le agenzie di una volta. Ma l'idillio sarà rotto. Di nuovo, soffocheranno. Crederanno di morire di piccolezza, di esiguità.
Sogneranno di fortune. Sogneranno di fuggire in campagna. Sogneranno di Sfax.
Non resisteranno a lungo.

Un giorno - non avevano sempre saputo che sarebbe arrivato? - decideranno di finire, una volta per tutte, come gli altri.

Chiude il libro una citazione.
Il mezzo fa parte della verità tanto quanto il risultato. Bisogna che la ricerca della verità sia essa stessa vera; la ricerca vera, è la verità dispiegata, di cui i membri sparsi si riuniscono nel risultato.

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