Fu una sera. Sul finire d’ottobre.
Me ne venivo giù dalle torbe di monte. Né contento né triste: così. Senza nemmeno un pensiero. Era tardi, era freddo, ero ancora per strada: dovevo scendere a casa, ecco tutto.
Casa d’altri è un racconto scritto da un giovane, Silvio D’Arzo, in cui l’io narrante è un anziano prete di montagna, sulle valli emiliane vicino a Bobbio. L’ho letto perché mi è stato regalato, e ho trovato semplicità e quotidianità, anche nella domanda più difficile che non si lascia nemmeno pronunciare.
Nel frattempo avevo comprato Lavorare stanca, di Cesare Pavese, attirato dall’idea di una poesia narrativa, quasi parlata, dalla descrizione della consuetudine e dell’identico che vivono nell’uomo, e non dell’evento assoluto e unico.
Scoprivo poi che Pavese aveva rifiutato per Einaudi il racconto di Silvio D’Arzo, lo aveva giudicato una novella “gracile”, e mi perdo a pensare al perché. Dopotutto, oltre questa gracilità, ho visto un profondo senso di inquietudine umana, che viene proprio dal fatto di non sentire il mondo come casa propria, casa d’altri, che forse anche Pavese doveva provare.
C’è quassù una cert’ora. I calanchi ed i boschi e i sentieri ed i prati dei pascoli si fanno color ruggine vecchia, e poi viola, e poi blu.
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