Ho letto Il sergente nella neve più per caso che cercandolo. Incuriosito dal suo successo, volevo Stagioni, l’ultimo libro di Mario Rigoni Stern, e invece ho trovato il primo, scritto fra il ’44 e il ’47 e pubblicato sei anni dopo.
E’ il racconto di un uomo semplice, di migliaia di chilometri a piedi nella neve per sfuggire all’avanzata dell’armata rossa, nel gennaio del 1943. Ho ancora davanti agli occhi l’immagine di un soldato che cede, si lascia cadere nella notte sulla neve, e immobile guarda gli altri che continuano a camminare silenziosi sotto le stelle.
La morte, la fatica, la sofferenza sono incomunicabili, ma quelle pagine le ha scritte un’anima che non si è indurita, che è riuscita a non dimenticare. Credo che una parte dell’anima di Rigoni sia morta in quella steppa, e che l’umanità e l’incomprensibilità del dolore abbiano lasciato cicatrici profonde in ciò che si è salvato. Eppure, da quelle cicatrici gelate ha saputo nascere l’autenticità di un uomo.
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