lunedì 26 maggio 2008

domenica 24 aprile 1994


C'è un lavoro di Alighiero Boetti privo di quella dimensione ludica e di quella piacevolezza visiva di tanti suoi lavori. Un lavoro aspro, nello stesso tempo evidente e ermetico, beffardo e molto inquietante. Serie di merli disposti a intervalli regolari lungo gli spalti di una muraglia è una sequenza di telegrammi ingialliti, messi in linea orizzontale sotto un vetro, con uno spazio lasciato all'estrema destra della bacheca, per un ulteriore telegramma. Il primo telegramma, indirizzato all'amico Gian Enzo Sperone dice "due giorni fa era il 2 maggio 1971", firmato Alighiero e Boetti; il secondo, sempre a Sperone, dice: "quattro giorni fa era il 2 maggio 1971"... poi diventano 8 giorni, 16, 32, 64 ecc. Gli intervalli tra una spedizione e l'altra diventano mesi, poi anni. L'ultimo telegramma (5 ottobre 1993) corrisponde all'8192esimo giorno rispetto alla data di partenza. Il prossimo (l'ultimo), per lo spazio lasciato libero, era previsto per l'anno 2017.

sabato 17 maggio 2008

1948

Da: Ostellino Piero
A: Nicola Locatelli
Inviato: Sabato 17 maggio 2008, 17:25:15
Oggetto: R: A proposito del suo articolo su L'Europeo (Israele)


Le mie parole le sono sembrate a senso unico perchè la propaganda anti-israeliana ha creato tali e tanti "fantocci polemici" (obiettivi artificiosi di comodo) che qualsiasi ricostruzione dei fatti come sono accaduti pare di parte. Non dimentichi che fra i Paesi che hanno votato per la spartizione della Palestina c'erano l'Unione Sovietica e tutti quelli del blocco sovietico. Che solo dopo, per ragioni strategiche, hanno contribuito a creatre i fantocci di cui sopra. Ostellino

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Da: Nicola Locatelli
Inviato: sab 17/05/2008 13.39
A: Ostellino Piero
Oggetto: A proposito del suo articolo su L'Europeo (Israele)


Gentile Prof. Ostellino,
da non esperto in materia, ho letto il suo articolo apparso su L'Europeo dedicato a Israele e l'ho trovato in alcuni punti estremamente interessante. Tuttavia, ribadisco da semplice lettore, globalmente anche aprioristicamente (e incomprensibilmente) schierato.

"Secondo un diffuso luogo comune, la nascita di Israele sarebbe figlia del senso di colpa dell'Europa per lo sterminio di 6 milioni di ebrei... per placare il proprio senso di colpa, la comunità internazionale avrebbe espropriato i palestinesi delle loro terre...".
In realtà, non vedo come si possa negare la presenza di questa componente psicologica all'indomani della guerra, se non altro come "laissez-faire" nei confronti di ciò che stava accadendo in Palestina. Inoltre, non vedo come si possa negare che il fatto stesso della nascita di un nuovo stato abbia comportato l'espropriazione di terra a un proprietario, chiunque fosse. La comunità internazionale sarebbe stata così condiscendente se lo stato d'Israele si fosse formato (per assurdo) nel cuore dell'Europa? O forse ha lasciato che tutto ciò succedesse in una zona del mondo ormai difficilmente controllabile, dove non poteva causare problemi ai propri immediati interessi?
Il peso e l'importanza di queste componenti possono essere discusse, ma credo che metterle da parte come semplice "luogo comune" non contribuisca a fare luce sulla situazione.

Mi è inoltre totalmente oscuro il passaggio: "Chi, a sua volta, sostiene il diritto di Israele alla propria esistenza e continua contemporaneamente a considerare la diaspora palestinese un'ingiustizia, non sembra capire che la sua è una contraddizione logica, politica e storica che allarma Israele e contribuisce solo ad alimentare il pericoloso e improponibile revanscismo palestinese. Se lo capisce, la smetta di dare un colpo al cerchio e l'altro alla botte, per malinteso senso del politicamente corretto".
Personalmente non riconosco affatto la contraddizione fra i due aspetti, a mio modo di vedere entrambi legittimi, e non riesco a capire quale possa essere la soluzione che lei propone. Forse è necessario abbracciare totalmente una sola delle ragioni in causa? Forse che una esclude l'altra? Che importanza può avere il fatto che si rischi di allarmare Israele sostenendo che la diaspora palestinese è un'ingiustizia? Tanto più che, come sottolinea lei stesso nel corso dell'articolo, la situazione attuale dei palestinesi non dipende certo interamente da Israele ma in gran parte dalla politica seguita dagli stati arabi vicini. Inoltre, sempre come è ricordato nell'articolo, proprio perché Israele è uno stato autenticamente democratico, dove i diritti civili e le libertà individuali sono tutelati e riconosciuti, non credo che si debba avere timore di esprimere la propria opinione in materia.
Credo che questa contraddizione sia apparente e semplicistica, e rischi di fare il gioco di chi ha colpevolmente infuso l'indottrinamento e fomentato il fondamentalismo religioso e l'odio senza quartiere.

A proposito delle "affermazioni di fonti non sospette" secondo cui "ogni sforzo è compiuto dagli ebrei per convincere la popolazione araba a rimanere e a condurre insieme a loro una vita normale (da un rapporto della polizia britannica del 26 aprile 1948)", mi permetto francamente di dare a questi rapporti il valore che trovano (sarebbe come leggere i rapporti dei servizi segreti libici per sapere cosa sia accaduto a Ustica), e cito ad esempio le varie azioni del gruppo Stern e in particolare il massacro di Deir Yassin, ricordato nell'articolo successivo a firma di Giuliano Ferrieri, e liquidato con la frase "quale guerra può non averne?" (di pagine nere).

La grave responsabilità degli stati arabi nei confronti della situazione palestinese è fuori discussione, ma negare semplicemente che nel mondo arabo esistano correnti di pensiero che abbiano "il coraggio e la volontà di esprimere liberamente opinioni che non siano quelle del fondamentalismo religioso e dell'odio" è francamente inesatto e forse altrettanto estremista. Basti pensare a una voce come quella di Samir Kassir, giornalista libanese ucciso in un attentato terroristico il 2 giugno del 2005 per le proprie idee.
Giornali e giornalisti dovrebbero contribuire a far conoscere e incoraggiare le voci del dissenso arabo anziché ignorarle e passarle sotto silenzio, se veramente hanno a cuore i diritti civili e le libertà individuali di quella regione.

A mio modo di vedere, israeliani e palestinesi sono entrambi prigionieri della facile cultura del vittimismo.
I soprusi innegabili subiti da una parte e dall'altra, nel passato recente o meno, diventano ora l'alibi per continuare a difendere ad oltranza, ciechi e sordi, delle posizioni incancrenite senza più nessun senso. La colpevole ignoranza in cui sono tenute le popolazioni arabe alimenta questa spirale vorticosa che evidentemente conviene a molti, forse molti più di quelli che si possa immaginare.
Mi lasci dire tuttavia che, proprio perché Israele è l'unico stato moderno, democratico e libero della regione, il fanatismo e l'oltranzismo di matrice ebraica appare come più assurdo, inaccettabile e ingiustificabile. Quando una parte degli israeliani vuole difendere ad ogni costo gli insediamenti, i territori occupati e impedire la creazione di uno stato palestinese, allora rovescia le parti, fa mostra di un'assurda miopia e insegue veramente "l'impossibile", per citare le sue parole. E la politica, come lei stesso dice, è invece "l'arte del possibile".

Mi sarebbe piaciuto poter conoscere la sua opinione su alcuni punti che restano senza risposta (ad esempio, sulla possibile soluzione del problema di uno stato palestinese, dopo aver eliminato diverse ipotesi utopistiche e non praticabili). In ogni caso, le sue parole mi sono troppo spesso sembrate impegnate a cercare responsabilità quasi esclusivamente "a senso unico".

Le auguro buon lavoro, cordialmente,

N. L.
mantova

sabato 3 maggio 2008

su una sedia al fresco


Mi sembra fosse stato Petrarca a dire di non fidarsi della memoria quando si incontrano brani che colpiscono, o vengono alla mente frasi da ricordare: bisogna scriverle il prima possibile su un pezzo di carta o un quadernetto, che si dovrebbe sempre avere appresso.
Se ci si fida troppo della memoria, quei ricordi scompaiono a poco a poco, sbiadiscono inesorabilmente.

Io mi ricordo una frase di Primo Levi, che mi riporta sempre alla realtà quando me ne distacco troppo nei pensieri, e allo stesso tempo ha l’effetto di ricordarmi la pochezza delle cose che possono rendere felice o infelice, ma di come sia difficile distaccarsene. "Se si escludono istanti prodigiosi [...] che il destino ci può donare, amare il proprio lavoro costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra".

Quanto a me, ho chiesto ancora una volta il silenzio.